Stemma eseguito in stile graffito retico donato dall' amico , celebre illustratore araldico, Marco Foppoli.
Stemma eseguito in stile graffito retico donato dall' amico , celebre illustratore araldico, Marco Foppoli.

Da un matrimonio tra non pari la causa della nullità dei provvedimenti araldici, nobiliari e cavallereschi concessi nell'ultimo decennio dal ramo ultrogenito Borbone Due Sicilie.

 

 

Con queste mie note non intendo entrare nel merito della discussione infinita sulla validità o meno del condizionato Atto di Cannes per determinare il Primato della Casata Borbone due Sicilie .

Ho voluto esaminare alcuni matrimoni contratti da membri della Real Casa alla luce del Diritto Dinastico e valutare la loro validità sulla base di atteggiamenti, documenti e memorie, nonché le conseguenti ripercussioni contemporanee.

Da pagina 113 a 116 del n°136 di “Nobiltà” l'Avv. Alfonso Marini Dettina ha provato la piena validità dinastica dei matrimoni celebrati tra le Loro Altezze Reali Carlo e Maria della Mercede principessa delle Asturie e del figlio Don Alfonso con S.A.R. Donna Alicia di Borbone Parma.

 

 

Ogni Casa Reale possiede regole proprie alla luce delle quali viene determinata la legale discendenza e l'accesso al patrimonio dinastico, il possesso della dignità di Capo della Casata, titoli , nonché ( se non più regnante) l'eventuale pretensione al trono. Nel caso della Casa Borbone Due Sicilie , storicamente, tali norme furono dettate dalla Pragmatica Sanzione, promulgata da Carlo, re di Napoli, in seguito Carlo III re di Spagna, con il decreto del 27 marzo 1776.

Esse prevedevano che il mancato riconoscimento da parte della massima autorità, il Capo della Real Casa, del matrimonio con persona, ancorché nobile, di inferiore condizione sociale , alla quale veniva negato il trattamento ed il titolo principesco e comportava l'esclusione dei figli dalla successione dinastica, veniva considerato , quindi, matrimonio tra non pari, morganatico, ovvero , i principi duo-siciliani potevano sposare solo principesse di sangue reale.

 

Nella storia del Regno delle Due Sicilie ci furono alcuni matrimoni diseguali , uno fu voluto da colui che si considera capostipite della Casata duo-siciliana , il già citato Carlo Borbone, in seguito Carlo III Re di Spagna .

Temendo che la Corona Spagnola passasse al fratello Luis , in quanto i figli, diretti discendenti , essendo nati all'estero correvano il rischio, per una precedente legge successoria , di non poter accedere al trono di Spagna, con la Pragmatica Sanzione dispose il matrimonio tra eguali quale conditio sine qua non poter legalmente ambire alla Corona.

Don Luis contrasse un matrimonio morganatico fu , quindi, escluso alla successione. Altro matrimonio tra non pari fu quello di Ferdinando I , all'epoca capo della Real Casa e proclamato Re delle Due Sicilie dopo il Congresso di Vienna. Alla morte della moglie Maria Carolina d' Austria , sposò Lucia Migliaccio, duchessa siciliana erede dei Borgia e vedova del principe Benedetto III Grifeo: 

La coppia ( lui 63 anni, lei 44 ) trascorse gli ultimi anni nelle ville fatte edificare per loro sul Vomero.

Consideriamo quindi l'unione di Gennaro Maria, ottavo figlio di Alfonso, conte di Caserta e la principessa Maria Antonietta Borbone delle Due Sicilie: Nel 1923 il principe sposò a Londra Beatrice Bordessa contessa di Villa Colli. Il matrimonio fu considerato morganatico da Don Alfonso, all'epoca Capo della Real Casa.

E' bene sottolineare che per qualsiasi tipo di matrimonio all' interno di una Casa Reale ( regnante o meno ), si rivela necessario il “regio assenso” da parte del Capo della Real Casa.

Tale fu imposto da Re Ferdinando II con gli Atti Sovrani del 7 aprile 1889 e del 12 marzo 1836, tuttavia, con la perdita territoriale del regno, l'obbligo di comunicazione ufficiale del consenso alle nozze, perse efficacia e fu sostituito dalla manifestazione pubblica di gradimento.

 

L'omissione del gradimento/consenso implica, comunque, il decadimento del membro della Famiglia Reale e di conseguenza dei suoi discendenti, da qualsiasi prerogativa dinastica, titolo nobiliare o dignità.

 

L'assenso alle nozze costituisce un' azione in grado di sanare una situazione irregolare, decisamente sfavorevole alla sposa di non pari dignità nobiliare ed ai discendenti diretti, il tutto sotto il preciso protocollo della tradizionale legge dinastica.

La personale presenza al matrimonio, la concessione di un titolo nobiliare o del massimo grado in un ordine appartenente alla dinastia nel massimo grado, la cortesia di un trattamento principesco, nei confronti della sposa e dei figli, nati dal matrimonio,

indicano il gradimento dell'unione, pur se non eguale, da parte del Capo del Casato e l'assenso a tutte le conseguenti prerogative.

Fu proprio grazie a questo assenso da parte di Ferdinando Pio, Duca di Calabria, che alla morte del padre Alfonso, Conte di Caserta fu Capo della Real Casa, che il matrimonio, anche se tra non eguali, tra suo fratello Ranieri e la contessa Maria Carolina Zamoyska, cugina in quanto figlia della principessa Maria Carolina Borbone Due Sicilie, fu accettato.

Alla sposa fu accordato, dall'illustre cognato, il trattamento di Altezza Reale e come era uso per le principesse , il grado di Dama Gran Croce di Giustizia , del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio.

 

La situazione risulta ben differente per l'unico figlio maschio di Don Ranieri, S.A.R. il principe Ferdinando Maria. Egli contrasse matrimonio il 23 luglio 1949 a Giez con Chantal nobile dei conti Chevron de Villette, matrimonio palesemente tra non pari.

Per l'anziano Capo della Real Casa Ferdinando Pio fu chiaro si trattasse di un matrimonio morganatico.

Durante gli undici anni che lo separavano dalla terrena dipartita, egli nulla fece per nascondere la propria avversione nei confronti dell'unione.

La sposa subì l'umiliazione di vedersi negare il trattamento di “ Sua Altezza Reale” ed il mancato conferimento dell'onore di Dama di Gran Croce di Giustizia, riservato alle spose dei principi duo-siciliani.

Nessun vero articolo riguardo le nozze "principesche" apparve sulla Rivista Araldico , solo nove righe nella cronaca, persa tra le notizie dell'Ordine Costantiniano.

In analoghe occasioni l'autorevole rivista, edita dal Collegio Araldico di Roma, avrebbe citato la sposa con l'appellativo di S.A.R. la Principessa Chantal Borbone Due Sicilie, nata contessina Chevron de Villette. Questo fu invece il laconico testo pubblicato:

 

“Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio. - Nomine e Promozioni: il 23 luglio u.s. (1949 – n.d.a)Il Principe don Ferdinando Borbone Due Sicilie ( figlio di S.A.R. il Principe don Ranieri, fratello minore di S.A.R. il Duca di Calabria ) univasi in matrimonio nel castello di Griez ( Savoia ) con la contessina Chantal di Chevron Villette di antichissima famiglia della Savoia. Il Santo Padre faceva pervenire agli sposi un telegramma di felicitazioni e di auguri con la Sua speciale benedizione. In questa circostanza l'Augusto Principe Gran Maestro ha conferito “ Motu Propriu “ la dignità di Balì di Gran Croce di Giustizia Costantiniano” allo sposo, suo nipote."

 

Negli undici anni che intercorsero tra il matrimonio e dipartita del Capo Dinastico, il duca di Calabria Don Ferdinando Pio e la Nobile Chevron de Villette fu contrassegnato dal gelo più assoluto.

 

Ciò è confermato dalle rivelazioni della Principessa Urraca figlia di Don Ferdinando Pio, alla presenza di alcuni gentiluomini riuniti nel 1993 in un salotto del Monferrato :

Donna Urraca confermò che il matrimonio non fu mai riconosciuto quale dinastico dall'augusto padre.

 

Come riportato sul Ruolo dell'Ordine del ramo ultrogenito dello S.M.O.C. di San Giorgio, la dignità di Dama di Gran Croce di Giustizia fu conferita solo il 28 febbraio 1973 a Chantal Borbone Due Sicilie dal suocero, Ranieri , quando avocò a sé la dignità di Capo della Real Casa Due Sicilie e Gran Maestro dell'Ordine Costantiniano, quindi, subito dopo la morte del fratello Don Ferdinando Pio.

Il trattamento: " Sua Altezza Reale " solo da allora fu in uso ufficiale.

 

Per il  Diritto Dinastico Don Ranieri non aveva il potere di “sanare” il matrimonio del figlio, palesemente morganatico, concedendo trattamento principesco e relative dignità alla nuora Chantal.

Infatti il provvedimento di un Capo di famiglia Reale, regnante o meno , può essere revocato solo da chi lo aveva emesso, non da un suo successore.

 

Non è difficile trarre conclusioni sulla situazione del discendente diretto di Don Ranieri, Carlo Maria, attuale sedicente Capo della R. Casa nonché sedicente Gran Maestro degli Ordini dinastici duo-siciliani.

 

Il matrimonio tra non pari , morganatico, dei genitori comportò l'esclusione dalla linea dinastica di Carlo Maria, quindi ne deriva, senza dubbio, che qualsiasi prerogativa dinastica, provvedimento araldico-nobiliare o dignità cavalleresca, da lui emessi quale espressione del cosiddetto ramo ultrogenito , ( Ran.) anche detto franco-napoletano, della Real Casa delle Due Sicilie, risultano ultra vires , totalmente priva di effetti.

 

Charles Marie Bernarde Gennaro de Bourbon des  Deux-Siciles conserva tuttora il trattamento di Sua Altezza Reale dovuto alla sua presenza nella linea di successione alla Corona di Francia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Chantal Chevron de la Villette

Rivista Araldica  giugno / luglio 1949.

 

Notare i toni formali , di " sufficienza" con i quali viene considerata la contessina. Il trattamento di Altezza Reale , fu usato , nei suoi confronti , solo alla morte del Capo della Real Casa  Ferdinando Pio allorquando Ranieri assunse a sé le prerogative dinastiche.

 

 

Rivista Araldica , pagina finale

Nei ruoli dell' Ordine Costantiniano,  Chantal  fu ascritta quale Dama di Gran Croce di Giustizia , solo pochi mesi dopo che il suocero, Ranieri assunse a sé la carica di Gran Maestro.

            NOBILITAS                          PAR  INTER  PARIS

                                                  di  Sergio de Mitri Valier

 

Per il  Dizionario TRECCANI , lo STATO è un

 

“  Ente dotato di potestà territoriale, che esercita tale potestà a titolo originario, in modo stabile ed effettivo e in piena indipendenza da altri enti. ”

 

Ciò che qualifica l'ente-stato è quindi l'esercizio della potestà.

 

Venendo meno la potestà, seppur ridimensionata dal Parlamento , del suo capo, ovvero il sovrano, con l'avvicendarsi di un altra potestà, repubblicana , un'altra costituzione e di un altro capo, è anche l'ente-stato che muta la sua essenza intrinseca.

 

Il mutamento istituzionale italiano del 1946 fu molto di più di un semplice mutamento di forma di governo, ma comprese un totale stravolgimento strutturale , la promulgazione di una nuova costituzione e la perdita di una parte di territorio, il cambiamento della sua natura, esso  mutò l'oggetto della potestà dell'ente-stato, non più il suddito ma il cittadino.

 

Se quindi un “ente statuario-regno” viene sostituito da un originale “ente statuario- repubblica”, il quale non riconosce e non tutela una delle istituzioni-cardine, precedentemente qualificanti: la nobiltà, tale istituzione assume semplice validità storica. Tale è la situazione venutasi a creare in Italia nel secolo XX.

 

Sotto questo punto di vista è opportuno sottolineare che tutte le famiglie nobili italiane, oggi non godano più valenza giuridico-funzionale ma solo storico-culturale , accomunate senza distinzione dal medesimo destino, sia quelle un tempo riconosciute e concesse dai sovrani italiani, sia quelli che ebbero ricognizione da parte di stati appartenenti al territorio italico non nazionale, stati preunitari , ordini sovrani e dinastici.

La dicotomia :

 

autentico / virtuale

 

valido / privo di valore

 

statuale / privato

 

applicata nel campo della ricognizione della nobiltà italica in Italia , considerando l'attuale diritto italiano, è fittizia perché pone discriminazioni dove vi è pieno, pacifico e totale disinteresse, analogamente non riconosciuto è ogni tipo di titolo e dignità nobiliare estera , anche in quelle nazioni dove è la nobiltà locale è tutelata.

 

Titoli e trattamenti che ebbero ricognizione o furono concessione dai sovrani del Regno d'Italia e quelli da differenti fons honorum, sono da porre su uno stesso livello , sia in patria sia all'estero, par inter pares, non si comprende chiaramente per quale motivo , vi è chi percepisce oggi i primi su un piano più elevato.

 

L'unica distinzione, che abbia giustificazione più che motivata tra famiglie un tempo appartenenti al ceto dominante o dirigente è quella tra nobiltà di fatto e nobiltà di diritto, considerando la prima, espressione di una distinzione  originata da una "fonte d'onore", tradizionalmente e pacificamente accettata , ma posteriormente non  formalmente riconosciuta , spesso a causa di  un mutato quadro politico istituzionale, la seconda, invece è espressione di famiglie che ebbero titoli e trattamenti concessi o riconosciuti, anche in epoche diverse da F.H. autentiche.

 

Tale prerogativa è appannaggio di fonti d'onore, sovrani o capi dinastici che ebbero o godano ininterrottamente riconoscimento da parte si stati dotati di giurisprudenza nobiliare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La nobiltà non titolata è una realtà che esiste a prescindere dal riconoscimento , statale , ufficiale .

 

Tale realtà costituisce, innanzitutto, un atto politico dell'autorità sovrana, il quale dà pubblicità a quella realtà, facendone discendere delle conseguenze giuridiche (oggi praticamente inesistenti ) :

il diritto all'uso pubblico di un titolo, onori militari, precedenze a corte, esenzioni fiscali, accesso a certe cariche ecc...

 

La nobiltà è sempre un atto reale e pubblico, perché è riscontrabile dal pubblico, la natura nobiliare sussiste anche se l'autorità sovrana, per i più disparati motivi, non vuole che il nobile possa accedere a quei benefici e quindi ignori o meglio non pubblicizzi tale natura, ossia non ne regoli i diritti, lo “status” e la sovranità .

 

Il riconoscimento ha un rilievo politico all'interno della società, è latore di un interesse particolare del sovrano ( personalità oppure stato ) che tutela il suo dominio, le sue influenze.

 

Un sovrano può concedere un titolo nobiliare , quindi un provvedimento “di grazia”.

 

L'atto sovrano “di giustizia” non è un atto costitutivo, ma è un atto ricognitivo/dichiarativo, che accerta una realtà precedente , la sanziona ( l'approva ) dando rilievo pubblicistico (*) a quella realtà, che è già pubblica, perché la sussistenza di quello stato è sotto gli occhi di tutti , ai pari ed alla popolazione.

 

 

 

(*) Pubblicistico termine di derivazione giuridica, indica qualcosa che concerne il diritto pubblico ossia il diritto che regola lo stato e la sovranità.

 

Oggi, in Italia, dove l'autorità dello Stato non si interessa della nobiltà, non ha norme che la riconoscano in modo pubblicistico, quindi che la regolamentino e le concedano specifici onori e oneri, è sufficiente il riconoscimento pubblico (ovvero del popolo ) particolarmente in ambienti esclusivi e la consapevolezza dell'impronta del passato storico familiare per potersi ancora oggi definire nobili (come i propri avi) senza alcuna particolare differenza, perché lo “status”, non provenendo più dalla ricognizione pubblicistica della legge, ma frutto del patrimonio familiare offerto di generazione in generazione quale eredità immateriale, nonché dal riconoscimento dei pari, non necessità d'altro.

 

D'altra parte non può essere richiesta una “ licenza d'uso” nobiliare ad un'autorità statuaria laddove non sia attualmente prevista, tanto meno considerare ...”paranobiltà” una realtà pubblica non tutelata né riconosciuta dalla giurisprudenza nazionale, infatti dovremmo usare lo stesso metro per l'hidalguia ( nobiltà non titolata ) nel Regno di Spagna.

 

 

 

 

 

L' EQUIVOCO NOBILIARE : identità , ricognizione , universalità

di  Sergio de Mitri Valier

 

La nobiltà è un fatto

  -reale

 -valido

 -trasmissibile

 

Da alcuni anni è emersa una scuola di pensiero la quale presume una netta separazione tra la piena validità legale della nobiltà, riconosciuta da autorità di stato attraverso le proprie legislazioni nobiliari, ed una nobiltà tradizionale, di consuetudine o cortesia, reputata priva di valore.

 

Esasperando al massimo questo concetto e considerando ormai defunti gli ultimi iscritti nel Libro d' Oro della Nobiltà Italiana ( 1896 ), custodito presso l' Archivio Centrale di Stato di Roma, non potendo, d'altronde prendere in considerazione postumi elenchi "provvisori ", si potrebbe parlare solo di discendenti di famiglie nobili, come alcuni studiosi fanno, perché gli iscritti negli Elenchi ufficiali nobiliari italiani (1922-1933 e supl. 1934-36) se non avessero presentato la documentazione per l’iscrizione nel Libro d’oro , dopo un certo lasso si tempo , avrebbero potuto essere cancellati (come avvenne quando nell’Elenco del 1933 scomparvero molte famiglie non estinte elencate in quello del 1922).
Il riconoscimento dello "status" nobiliare concesso, più o meno storicamente, ad Italiani da parte del Sacro Romano Impero , dallo Stato della Chiesa , dalla Repubblica di San Marino fu , da parte del Regno d'Italia , oggetto di accese discussioni e successivo risultato, spesso positivo in forza di  gravosi Decreti Reali di Riconoscimento  o semplici  Decreti Reali di Conferma ( LL:1871 / 1924).

Fatto sta che, in tutti i Paesi dove la nobiltà non sia tutelata o addirittura proibita ( provvedimento, comunque ed ovunque, ultra vires ), ogni dignità e titolo nobiliare del mondo occidentale va considerato vera e propria eredità immateriale. La continuità temporale della nobiltà ai giorno d'oggi non è quindi messa in dubbio tanto è vero che lo S.M.O.M. Ordine Sovrano, accetta nelle proprie categorie nobiliari cavalieri appartenenti a Paesi dove la nobiltà è tutelata ed altri da Paesi dove essa non solo non è più riconosciuta , ma talvolta addirittura proibita, ciò a riprova che la nobiltà ( comunque sia considerata dalle autorità nazionali ) si trasmette ininterrottamente nelle generazioni.

L'unico atteggiamento onesto e pragmatico con il quale porsi di fronte a questa realtà ( perché di una realtà sto scrivendo ) è considerare in Italia , oggi , su uno medesimo piano tutta la nobiltà , sia quella approvata dalla Consulta Araldica, sia quella che per vari motivi non fu oggetto di regio avvallo:

 nobiltà immemoriale , degli antichi Stati , preunitaria della quale non vi furono richieste o ci fu reciproca indifferenza, rifiuto oppure non furono perfezionate le prove documentarie, spesso perché ritenute superflue se non, addirittura ... offensive.

 

Non è mai esistita una sola nobiltà , ma più nobiltà. Perché dovremmo considerare sullo stesso piano realtà sociali di diversa origine e con caratteristiche originarie non sempre sovrapponibili , nonostante siano sostenuti dai medesimi miti e si manifestino attraverso gli stessi rituali di ceto?
Perché quello che ho chiamato " l'equivoco nobiliare " è così rappresentato:

 

* La nobiltà che " legalmente"  fu riconosciuta e tutelata . 

 

* La nobiltà la quale non fu legalmente riconosciuta , quindi “di consuetudine” o“cortesia”

 

per lo Stato Italiano pari sono: fonte di totale disinteresse , entrambe non tutelate minimamente dal punto di vista giuridico.

 

Alla luce di questo corollario ogni classificazione è del tutto arbitraria, ciò che tutela la nobiltà non è la giurisprudenza dello stato nazionale, o meglio , ciò che potremmo desumere dalla ( delegittimata ) giurisprudenza nobiliare di un Regno durato solo un'ottantina d'anni, ma occorre risalire a monte,  gli jus accreditati sono il diritto nobiliare preunitario, quello naturale e quello internazionale.

 

Considerando la “nobiltà” nel senso tradizionale ed occidentale del termine, cioè come pubblico riconoscimento ( spesso, ma non necessariamente , da un potere sovrano ) che si attesta a coloro ( singoli o molto più spesso a famiglie ) si siano distinte per particolari virtù generosamente spese per l’affermazione di alti ideali, per il bene del prossimo e del suo progresso, per l’illustrazione della Patria entro e fuori dai suoi confini, per l'impegno dei propri membri nella responsabilità di governo, ogni forma di “nobiltà di storico fondamento” ha un grande valore, se non altro come sprone ed esempio per le future generazioni.

 

L'eredità morale e storica , tramandata ha piena validità con o senza avvallo pubblico e legale tutela, oggi come ieri.

Essa, attraverso i secoli, ha incontranto e spesso si è scontrata con rivolgimenti e sconvolgimenti ideologici e politici, i membri delle famiglie che hanno vissuto da protagoniste la Storia non hanno  certo bisogno di chiedere diritto di cittadinanza .

 

Pur in altre forme e con altre caratteristiche politiche, nulla chiedendo e nulla concedendo, vivono il presente, salde nel passato e certamente proiettate nel futuro.

 

E' indubbiamente in atto il tentativo di negare, delegittimare oppure irridere qualsiasi contemporanea presenza a ciò che ci ostiniamo a definire “Nobiltà” ed alle organizzazioni di antica origine che , per osmosi, ne hanno assunto le caratteristiche che le rendono ed uniche, mi riferisco ai ragguardevoli , religiosi Ordini Cavallereschi.

 

Precedentemente ho accennato ad un punto fermo :

 

NOBILTA' E IDENTITA'

 

La nobiltà ( di storico fondamento ) è una realtà e per trattare l'argomento cito la Costituzione repubblicana .
La Repubblica nella sua legge fondamentale all'art. 2 dice:
"La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale."

 

La nobiltà è una formazione sociale, una delle più antiche ed organizzate, è un fatto reale innegabile , identificabile, quindi la giurisprudenza può agire nei confronti di essa in quattro modi :

 

proibirla ( ma sarebbe un abuso di potere ),

 

regolamentarla,

 

riconoscerla,

 

ignorarla .

 

Il nostro Paese ha scelto la soluzione dell'indifferenza, non l'ha voluta abolire , bensì nella XIV disposizione transitoria le ha negato rilevanza giuridica , tuttavia il fatto che la disposizione sia transitoria apre , addirittura uno spiraglio ad un improbabile riconoscimento postumo.
Qui ci accostiamo ad un successivo passaggio:

 

 

NOBILTA' E RICOGNIZIONE

 

Se il primo passo nei confronti di una fatto è consideralo reale , il secondo ( riconoscerlo ) è considerarlo valido.

 

La domanda : “ Ma tu sei un vero nobile ? ” può suscitare un'infinità di risposte a seconda dell'interlocutore. Rivolgendosi ad un Prefetto , ad un giornalista, al vicino di casa , ad un bambino , ad un notabile di un Ordine Cavalleresco , le risposte sarebbero ovviamente diverse , perché il riconoscimento è un atto unilaterale e la percezione del validità è soggettiva a seconda dei singoli o dei gruppi di persone.
Quando tratto dell'argomento amo fare il confronto con l'istituto matrimoniale : la validità muta a seconda di colui che l'accetta come tale oppure lo rifiuta, ovvero il matrimonio religioso , quello civile , quello concordatario subiscono diversa percezione pur essendo “ fatti reali ", a seconda del singolo o del gruppo che formula un giudizio.

 Il concetto di validità di uno status nobiliare è soggettivo , per questo motivo osservo sempre con grande sospetto classificazioni e certezze su una materia concretissima eppur allo stesso tempo molto vaga.

I criteri che prediamo in esame quale paradigmi dimostrano tutto ed il contrario di tutto .
Gli aspiranti Cavalieri ai gradi nobili di Giustizia e di Jure Sanguinis del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio possono presentare, quali prove del loro stato nobiliare, i diplomi del Sovrano Militare Ordine di Malta per i gradi di Onore e Devozione o di Grazia e Devozione oppure i diplomi di ammissione agli Ordini di Santiago, di Calatrava e di Alcántara  ed all'Ordine di Montesa  . Il riconoscimento delle prove nobiliari di ammissione  è del tutto reciproco.
Una dignità alto-medioevale attribuita ad una famiglia veneziana sembrerebbe aver poco a spartire con un titolo nobiliare attribuito negli anni Trenta per meriti bellici ad un generale pugliese.
Un sigillo ed una firma possono certificare ( brevettare ) un provvedimento di Grazia, ovvero una nobilitazione o conferimento di un titolo oppure confermare, registrare qualcosa che già esiste, il che rappresenterebbe un provvedimento di Giustizia, ma per riconoscere , registrare, confermare, attestare qualcosa occorre in ogni caso che questo “ qualcosa ” esista da prima, non certo come usurpazione o truffa ma come una qualità eminente, spesso pacificamente riconosciuta e tramandata da tempo, da parte delle famiglie che appartengono allo stesso ceto e da parte del popolo .

 

L'eterno dilemma dell'uovo e della gallina . E' nata prima la nobiltà o l'autorità legalmente deputata a validarla?

 

Oggi in Italia, siamo agevolati, possiamo evitare queste forme di autolesionismo :

 

Tutte le realtà riconducibili alla nobiltà possiedono pari (e nullo ) riconoscimento da parte dello Stato , l'autorità che era deputata a validare la condizione di nobile ha emanato leggi nobiliari dichiarate incostituzionali, perché quindi classificare qualcosa di attualmente e legalmente inclassificabile per attribuirne un valore statuale pari a zero?

 

 

NOBILTA' E UNIVERSALITA'

 

L'unica forma di riconoscimento nobiliare oggi in atto in Italia è quello ottenuto dall'accoglienza in determinati ambiti esclusivi ( letteralmente : "che escludono" gli estranei ):
ordini cavallereschi tradizionalmente nobiliari , circoli , famiglie ed associazioni , dove la nobiltà familiare sia accettata per osmosi.

Nei corso dei secoli gli aristocratici raramente viaggiavano per l' Europa portando con sé regie patenti, elenchi nobiliari , né possedevano particolari credenziali , essi venivano riconosciuti dal loro distinto stile di vita e le qualità che erano proprie:

Similes cum similibus congregantur.

 Negli ultimi dieci secoli sono emersi e si sono radicati una serie di principi e valori , in realtà , già presenti agli albori della civiltà occidentale:

Serietà, servizio, dignità , coraggio , rispetto della parola data, signorilità e sobrietà.

 

Delle primarie caratteristiche comuni , eliminata l'ideologia , ovvero programma comune per l'esercizio e le manifestazioni del proprio ruolo dominante , non possiamo che concordare con Chojnacki che i fattori universali in grado di distinguere la nobiltà sono:

l'identità collettiva

( un senso di appartenenza consapevole e saldamente riconosciuto),

l'identità culturale

( sistema comune di principi e di pratiche caratterizzante la distinzione del suo comportamento sociale ).

Secondo lo studioso, a Venezia fino al XIV° Secolo, la nobiltà aveva una duplice valenza: giuridico- funzionale e storico-culturale, le quali si fusero con la cosiddetta“seconda serrata” del Maggior Consiglio.

In modo paradossale, cinquecento anni dopo si è verificato un fenomeno opposto , ovvero, tramontata la valenza giuridico-funzionale della nobiltà rimane pienamente valida quella storico-culturale.  

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

    L'attuale rilevanza della
    nobiltà nei Paesi dove
    essa non sia tutelata dalla legislazione nazionale.

     Il caso Italia.

     

     di    Sergio de Mitri Valier



     L'ordinamento legale di uno Stato può porsi nei confronti di un fatto reale,  identificabile per caratteristiche proprie, ad esempio la "nobiltà", in  quattro modi :

     

 *  riconoscimento 

 *  regolamentazione

 *  proibizione 

 *  indifferenza .

     

 Questi ultimi due atteggiamenti ( caratteristici dei Paesi a regime repubblicamo) hanno l'evidente intento di avversare, sicuramente non riconoscere ed ovviamente non tutelare lo “status”, la qualità nobiliare.

La proibizione della nobiltà è giuridicamente“ultravires”, ovvero al di là della portata dei propri poteri legali (un abuso di potere ), al contrario, l'indifferenza è un atteggiamento ambiguo ma sostanzialmente onesto.     

 Infatti, l'ordinamento legale può pronunciarsi sul riconoscimento e la regolamentazione delle manifestazioni che derivano da una realtà, ma non sulla realtà stessa.

     

 In altri termini: vengono legalmente vietati gli anacronistici privilegi nobiliari ma non la realtà, ovvero il “fatto sociale”- nobiltà.

     

 L'abolizione di una realtà va aldilà della capacità del diritto, quindi, non si può eliminare un fatto :

che un insieme di persone si identifichi come appartenete alla nobiltà ovvero discendente da famiglie  che furono protagoniste della Storia, un tempo appartenenti ai ceti dirigenti italiani, al quali si aveva accesso storicamente  tradizionalmente per nascita o per l’acquisto di determinati requisiti formali come la nobilitazione, l’aggregazione o l’investitura.

 

La giurisprudenza nazionale italiana si limita a non attribuire valore legale alla nobiltà ma , palesando indifferenza, non entra in merito alla sua esistenza.

 

La nobiltà italiana è, oggi come ieri, un fatto sociale scaturito da un diritto naturale e millenario, sancito dallo “ jus gentium” percepito come quale una sorta  di eredità immateriale, un diritto personale e come tale assolutamente inalienabile.

     

La nobiltà è quindi una qualità, un attributo del tutto compatibile con la costituzione democratica del nostro Paese dal momento nel quale non fu più privilegiato accesso a funzioni, cariche pubbliche, e vennero proibiti privilegi economici, patrimoniali o giurisdizionali.

 

La repubblica nella sua legge fondamentale all'art.2 recita :


    "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale."


    La nobiltà è decisamente una di quelle formazioni sociali ove la personalità dell'uomo si manifesta, essa è latrice di un patrimonio di storia , vissuta da protagonisti , il quale non può - ontologicamente - essere  indifferente.

  

Alla luce di quanto ora scritto ridurre la nobiltà in Italia a mero "ricordo storico" è fortemente riduttivo.

 C'è differenza tra ricordo e memoria il primo è una sorta di emersione mnemonica che porta ad un sentimento di repulsione oppure ad una languida o gradevole nostalgia , la seconda è la roccia dove è possibile porre solide fondamenta .

     

 La memoria storica è ben altro che ricordo storico, infatti esso è il riconoscimento di un “fatto”, il “proprium patrimonium” familiare - nobiliare , il percepire se stessi responsabili, custodi e partecipi nell'oggi, aperti sempre ad un futuro fecondo, consci del perenne valore della tradizione tramandata.


 Una considerazione :

   Se nella Spagna monarchica, dove esiste una giurisprudenza nobiliare, tre illustri e prestigiosi giuristi docenti universitari sono “costretti” a pubblicare un pregevole lavoro di in centinaio di pagine (1) per dimostrare il diritto all'esistenza attuale della nobleza llana , affinché non sia “ solo un ricordo storico”, ciò significa che anche nei Paesi dove dovrebbe essere garantita la rilevanza giuridica della nobiltà, essa è ben parziale e carente, si presume quindi che analoghe e sovrapponibili argomentazioni scientifiche possano essere avanzate oggi nell'Italia    repubblicana , la quale è priva di legislazione nobiliare.

     

     Alla luce del pensiero della maggior parte degli studiosi della materia si può ragionevolmente affermare che la nobiltà , intesa come qualità , attributo, status, sebbene non tutelata dalle leggi dello Stato , goda in Italia ed altrove dignità giuridica derivata dal diritto naturale e da quello internazionale , ha valenza storico-morale e riunisce in associazioni, circoli, sodalizi , ordini cavallereschi, gruppi di persone con comune origine, discendenti da famiglie un tempo appartenenti a ceti dirigenti italiani, al quali si aveva accesso storicamente e tradizionalmente per nascita o per l’acquisto di determinati requisiti, con comune impronta culturale e stile di vita assimilabile.

 
   É evidente che giudizi tranchant e battute congegnate al fine di minimizzare , banalizzare o , ben peggio, ridicolizzare le dignità nobiliari italiane sono fine a se stesse, maldestri disegni tracciati allo scopo di esaltare realtà differenti ed in antitesi vera o verosimilmente, presunta con la nobiltà italiana.

 

(1) ” La nobleza no titulada en Espana , dictamen jurìdico ”
2013,  Ediciones Hidalguia,

 

F.Burrios Pintado, J.Alvarado Planas, Y.Gòmez Sanchez

E' opinione comune da parte della maggioranza degli studiosi di diritto nobiliare, che per quanto riguarda gli attuali riconoscimenti nobiliari delle famiglie italiane, gli unici Fons Honorum che oggi possono ufficialmente confermare qualità e titoli nobiliari , sono i Gran Maestri :

dell' Ordine Sovrano indipendente  ( S.M.O.M ) ,

degli ordini cavallereschi dinastici, per il cui ingresso siano previste prove nobiliari , riconosciuti tuttavia da almeno una nazione in cui la forma dello stato sia quella monarchica, sempre quindi in definitiva nel pieno rispetto della règia prerogativa in materia nobiliare .

Allorquando un Sovrano viene estromesso dal dominio politico di un territorio, senza che compia alcun atto abdicativo o di acquiescenza al nuovo Ordinamento Politico, Egli subisce una “compressione” nei suoi due diritti, jus imperii e jus gladii, che conserva però come, suol dirsi “in pectore et in potentia”, nella qualità di “ Pretendente” al Trono perduto.

Conserva, invece, in tutta la loro interezza, l’esercizio degli altri due diritti, jus maiestatis e jus honorum, che costituiscono la sua particolare Prerogativa che va sotto il nome di “FONS HONORUM”, connaturata nella sua funzione sovrana, che si esplica nella facoltà di “CREAR NOBILI ED ARMAR CAVALIERI” negli Ordini Cavallereschi di collazione dinastico-familiare del proprio Casato.

Tale diritto si trasmette “Jure sanguinis” all’infinito, ai propri discendenti, in persona del “Capo di Nome e d’Arme della Dinastia”.

 

.

 

     

 


     

 

 

 La legittima validità morale e storica dello

"status nobiliare"

 

  di Sergio de Mitri Valier

 

 

  E' lecito domandarsi, alla luce della sentenza 110 /1967 che ha dichiarato incostituzionale la giurisprudenza nobiliare del Regno d'Italia, quali siano gli attuali possibili criteri di legittimazione del patrimonio storico-morale dei discendenti delle famiglie del ceto nobiliare italiano e in particolare veneziano.

 

Premetto di essere tra coloro i quali ritengono palesemente insensato circoscrivere la nobiltà di una casata nei risultati delle attività ricognitive della Consulta Araldica e negli elenchi nobiliari del Regno d’Italia.

Tale attività, riversata negli elenchi nobiliari del Regno d’Italia ha spesso disconosciuto o “dimenticato”, in buona o cattiva fede, lo status di un buon numero di famiglie che hanno potuto vantare per secoli condizione, attributo e qualità nobiliare.

 

Secondo un’autorevole scuola di pensiero, avvalorata dal parere di studiosi della materia, è sicuramente più equo considerare la legittima validità morale e storica dello “status nobiliare”, testimoniata esclusivamente dalle singole attestazioni e prove documentarie poggianti sulla legislazione nobiliare in vigore nel momento, anche remoto, in cui ebbe origine la nobilitazione.

 

Di fatto, oggi in Italia si può affermare che questo sia il criterio di gran lunga più rispettoso della tradizione storico-nobiliare di una casata, quindi ne consegue che la certezza dell’acquisizione dello“status” e del progressivo sviluppo della distinzione familiare vada ricercata all’interno di ben delimitate coordinate di luogo e di tempo, sostenuta dalla legislazione e alle usanze nobiliari all’epoca in vigore, secondo il principio giuridico affermato dalla massima “tempus regit actum”ovvero ogni atto va valutato secondo la norma vigente al momento della sua entrata in vigore .

 

La secolare appartenenza della dogale casata Valier al ceto dominante della Serenissima, ininterrottamente presente nel Maggior Consiglio dal 1297 al 1797, è indiscutibile, quello che mi propongo di evidenziare è che all’epoca della sicura formazione dei ceti tribunizi e giudicali, primi autentici nuclei del futuro patriziato veneziano, in assenza di diretti eredi maschi, usi e legislazioni vigenti contemplassero la trasmissione delle prerogative onorifiche ereditarie e dello status nobiliare anche per via femminile, giustificando quindi l’allargamento della dignità nobiliare dei Valier ad alcune famiglie imparentate nei secoli, fino ai giorni nostri.

 

Escludendo la giurisprudenza imposta da dominazioni straniere, francese e austriaca, si tratterà di individuare quale fosse la legislazione pertinente tra

quelle che si sono avvicendate nel corso della millenaria storia della Serenissima.

 

L’autorevole studioso Roberto Cessi nel capitolo XI “Origini del Patriziato veneziano” del suo lavoro “Origini del Ducato di Venezia”, riferendosi al periodo compreso tra i secoli IX e X sostiene :

  

L’attività dei gastaldi ducali sviluppando un processo di accentramento delle funzioni statali nella persona del duca (doge n.d.r.), sottrasse ai tribuni molte delle primitive funzioni, li sostituì e ne sfigurò la fisionomia al punto di trasformare l’ufficio in un titolo ereditario e onorifico.

I discendenti delle antiche famiglie tribunizie acquisirono così titolo di nobiltà, siccome eredi di quelle prerogative d’onore che sole erano sopravvissute dell’opera dei loro antenati, i tribuni anteriores ”.

 

In ogni caso, per l’autore, questa nobiltà nasce dall’esercizio di un ufficio anziché essere stato titolo all’esercizio stesso.

Secondo Roberto Cessi, dopo quella di tribuno, vi è una seconda figura nobiliare che prende campo nei secoli seguenti, quello dei iudices , organo e strumento della curia dogale , seconda categoria di nobiltà nei sec. XI e XII:

I giudici vengono detti anche nobiles , come sono detti maiores , primates o sapientes (…) Le famiglie socialmente ed economicamente preponderanti nella vita privata fornivano i propri membri agli uffici nobilitanti, erano coloro che di consueto partecipavano alle assemblee popolari e rappresentavano la turba nobilium virorum che sottoscriveva gli atti pubblici”.

 

Nel 1142 nacque il Maggior Consiglio per sviluppo di un organo consuntivo, assunti poteri legislativi, aggregando consigli e uffici. Ben presto i membri per diritto superarono quelli eletti ma gli uni e gli altri erano quasi totalmente espressione di quel nucleo ristretto di famiglie in massima parte provenienti dal ceto giudicale. A fine Secolo XII, con lo sviluppo del Consiglio, i rappresentanti eletti cominciarono ad essere chiamati nobiles vires, abbozzo del ceto definitivo, quel patriziato che prese forma solo dopo la sua Serrata del 1297.

 

L’origine della nobile famiglia Valier emerge da un passato leggendario.

Alcune fonti agiografiche vorrebbero farla risalire a un ramo tribunizio della Gens Valeria romana trasferitisi a Padova e da là fuggiti dalle incursioni di Attila sulle isole della laguna nel 423. Di sicuro sappiamo che accumulò grandi fortune per mezzo della produzione agricola nella zona di Gamberare e Mira ( entroterra lagunare ) ma soprattutto che ebbe tribuni antichi.

 

Giacomo Zabarella nella sua opera del 1666 scrive in

Gli Valerii : overo origine et nobiltà della Gente Valeria di Roma di Padova et di Venezia…”:

Spesso diversi di essi ( Valier n.d.r. ) furono creati sopra tutte le isole Tribuni Generali, Governatori & Capitani con somma autorità”.

Più avanti lo Zabarella, inizia l’elenco genealogico (il titolo Senator all’epoca era inteso come membro della magistratura di governo ):

 

Valerio dei Valerii Senator Veneto 1000 ca

Massimo Senator 1030 ca

Valerio Senator 1050 ca

Marco Senator 1075 ca

Valerio II Senator 1100 ca

Andrea I ( 1120 ca )

Marco ( 1140 ca )

Valerio III ( 1160 ca )

Andrea II ( 1190 ca )

ValerioIV ( 1220 ca )

Nicolò ( 1240 ca ) capitano nell’impresa di Terra Santa contro gli Infedeli.

Vidal ( 1260 ca )

Nicolò (1280 ca ) nobil homo, membro della Quarantia.

eccetera.

 

Per alcuni studiosi la famiglia Valier appartiene alle “case vecchie”, quelle la cui origine si confonde con quella di Venezia. Secondo la tradizione consolidata apparteneva alle “case nuove” ovvero “Curti” le cui famiglie, per Andrea da Mosto, già direttore dell’Archivio di Stato di Venezia, appartenevano alla classe degli ottimati dopo l’anno Ottocento.

Secondo l'omonimo autore de“ I Dogi di Venezia “, la famiglia di certo “è da annoverare tra le antiche di Venezia”.

M. Barbaro nelle Discendenze Patrizie, in merito alla genealogia Valier annota che “Piero e Corado Valero nell’ 890 sottoscrissero la dichiarazione delli confini di Chiozza , ed Otto Orseolo dose del 1009 con li suoi giudici e populo dichiarì qual fazioni dovevano fare, e ciò che dovevano pagare gli abitanti di Città Nova, già detta Eraclia, sottoscrisse il Dose ed altri 43 , due dei quali furono Petrus e Joannes Valerio.”

Si può correttamente dedurre che i Valier appartenevano a quella “turba nobilium virorum “ che sottoscriveva gli atti pubblici e di cui si accennava più sopra.

 

C’è chi sostiene che la chiese di San Moisè, dietro Piazza S. Marco nel 947 sarebbe stata riedificata da Moisè Valier e per sua volontà fu consacrata al personaggio biblico di cui portava il nome, chi ha un minimo di dimestichezza con la storia di Venezia non può fare a meno di confermare che opere di questo tipo erano compiute da famiglie socialmente ed economicamente distinte appartenenti al ceto degli ottimati, tribunizio o giudicale.

 

Si può prudentemente affermare che almeno dal Secolo XI ° i Valier appartenessero a quel ristretto gruppo di famiglie veneziane che si alternavano in Consigli ed Uffici distinguendosi in capacità economica e sociale dalla massa dei cittadini veneziani.

 

Abbiamo in questo modo localizzato e datato con sufficiente accuratezza la nascita e la maturazione della dignità nobiliare della dogale famiglia Valier, la quale sarebbe diventata, per mezzo millennio, colonna portante del governo veneziano, tuttavia occorre individuare ed esaminare la legislazione che regolava il passaggio generazionale della distinzione“nobiliare” vigente nelle isole della laguna prima della definizione del Patriziato e delle sue precise regole.

 

Venezia nacque bizantina.

 

Tardo romana e bizantina fu la sua prima giurisprudenza familiare che si protrasse più a lungo dell’effettivo dominio imperiale, integrata da contaminazioni longobarde e usanze locali, ma non dalle consuetudini “saliche”della legislazione dei Franchi, tutto ciò prima che si sviluppasse un’autonoma e severa giurisprudenza nobiliare tra la fine del XIII° ed inizio del XIV° Sec.

Marino Zorzi, afferma che prima della Serrata del Maggior Consiglio

a Venezia“ la qualità di ”nobilis vir” veniva attribuita (…) a chi portava un nome antico ed illustre, collegato alla storia del ducato e della città, ma anche a chi ricopriva un ufficio pubblico di rilievo”.

Secondo H.G. Beck , Ideen und Realitäten. Byzanz :

Nell’Impero Bizantino dei Secoli VIII e XII accanto all’aristocrazia amministrativa “aperta” e la nobiltà per nascita della provincia, la quale era in possesso di enormi ricchezze, anzitutto terriere vi era una nobiltà senatoria ereditaria, disomogenea per composizione”,

mentre per H. Ahrweiller , in  "Bureaucracy in Traditional Society":

 

La nobiltà della provincia imperiale bizantina della Venezia altomedievale era associata alla ricchezza terriera e alla presenza negli uffici, tra il Secolo X ed il XI il concetto di nobiltà ereditaria si andava formando e consolidando”.

 

Nello stesso periodo non si era ancora diffuso, sia in Oriente che in Occidente, il sistema di trasmissione del nome secondo la linea paterna:

Ciò che noi chiamiamo “cognome” poteva provenire o dal padre o dalla madre, o persino dalla nonna secondo la linea materna (…) inoltre gruppi di individui apparentai da un unico nome di famiglia rimanevano comunque in relazione reciproca anche se non formavano un lignaggio patrilineare: in questo caso i loro legami erano bilaterali ( e cioè patrilineari e matrilineari), e la loro separazione di cognati e agnati non era nettamente tracciata. Nella coscienza sociale bizantina del XI e XII Secolo il concetto di “genos” ( stirpe, lignaggio ) era applicato ad essi non meno di quello di famiglia patrilineare.

Salvo rare eccezioni possiamo a buon diritto considerare gli individui che portano lo stesso nome di famiglia come appartenenti ad un lignaggio, comprendenti cognati ed agnati.

( Da Alexander P. Kazhdan e Silvia Ronchey, “L’aristocrazia bizantina dal principio del XI alla fine del XII secolo”).

 

A Venezia, pur nell’ambito di consuetudini locali di diritto familiare, nelle quali la donna aveva un ruolo assai più attivo e libero che in quelle delle regioni di tradizione longobarda, i maschi godevano di un trattamento preferenziale nella successione, per la quale vigevano norme tendenti ad evitare o almeno a limitare il frazionamento dell’asse ereditario, che doveva essere, per quanto possibile, conservato nella linea maschile, favorendo, all’occasione, i proprinquiores maschi rispetto alla diretta discendenza femminile(…)

A Venezia, com’è possibile rilevare dalle succinte note che seguono, la famiglia rimane la base essenziale per l’affermazione dell’individuo in ambito sociale e politico ( attraverso la famiglia si trasmettono ricchezza, posizione ed eventuale prestigio sociale, tradizione di partecipazione alla vita pubblica e a quella politica, in altre parole un’aspettativa di affermazione per i discendenti, che spetta ai singoli, certo, realizzare di volta in volta ) .

 

Ciò che emerge dagli studi di Andrea Castagnetti è che la successione ex foemina di una distinzione nobiliare, in assenza di eredi maschi era all’epoca legale ed in uso.

 

La documentazione privata, per quanto avara, offre alcuni spunti: nell’anno 1079 una vedova con i due figli maschi afferma, in relazione ad un atto di cessione, che un fundamentum di saline, dapprima definito di proprietà comune inter nos et nostros propinquos, est de iure proprio de nostra parentela Bonoaldis , nella quale espressione vanno sottolineati,da un lato, l’impiego del termine parentela per indicare non la famiglia ristretta, costituita dalla madre vedova e dai due figli, ma un più ampio gruppo familiare , dall’altro lato, l’utilizzazione, rara , del nome di famiglia, con significato collettivo, non connesso a singole persone. A singoli nuclei familiari di un gruppo parentale ampio e potente come quello dei Michiel viene fatto riferimento in una securitas che uno dei Michiel rilascia al monastero della SS. Trinità e di S. Michele di Brondolo, restituendo quanto concesso in passato al padre suo e ad altri parenti, in tutto quattro Michiel, i cui nuclei familiari e i cui discendenti diretti sono identificati con le mogli dei singoli e con gli appartenenti alle loro domus: et cum omnibus de domibus ipdorum .

Il ricorso al termine domus richiama la situazione del Regno ove, come appresso sottolineamo, esso veniva assunto e si andava diffondendo per indicare la struttura familiare dei ceti dominanti.

( da Andrea Castagnetti , “La società veneziana nel Medioevo” ).

 

Un articolo di Maria Teresa Manias , pubblicato sul n° 92 del periodico“Nobiltà”tratta l’argomento della successione nobiliare in base alla legislazione bizantina in vigore in Sardegna nell’alto Mediovo , quindi nel periodo nel quale la stessa vigeva anche nella neonata Venezia:

La nobiltà, durante la dominazione bizantina ( anni 553-815 ca, N.d.R.) era di due tipi , una di fatto determinata dal possesso di latifondi e l’altra derivante dall’esercizio delle cariche pubbliche o dallo svolgimento di incarichi di corte, contemporaneamente legate ad un concetto di famiglia dalla quale si discendeva sia per via maschile sia femminile .

Per quanto riguarda la nobiltà isolana è possibile delineare dei caratteri simili a quelli appartenenti alla nobiltà spagnola e bizantina ma non certo a quella italiana che manca delle caratteristiche fondamentali di quella sarda, in primo luogo perché combacia con le caratteristiche delle nobiltà di fatto che deriva dalla nascita e dalla pubblica considerazione con legami parentali trasmissibili sia in linea maschile che femminile.(…) la donna gode dei medesimi diritti dell'uomo, per quanto concerne l'eredita , il possesso, la compravendita e la transizione. Nel periodo alto giudicale (815 ca.-1016 ca. prima della dominazione spagnola N.d.R.) nell'ambito delle classi costituite dal giudice e i suoi familiari, dai maiorali, dai liberi e dai servi, le donne godevano parità di diritti. Il giudice era maschio ma la regina, ricordata nei testi come donna de logu o donna maiore, era la prima donna del regno; titolo onorifico ma che, almeno ufficialmente, la equiparava al giudice. Alla successione erano ammesse le donne, anche se in questo caso era il marito a divenire giudice. I figli dei giudici erano donnichellos e le figlie donnichellas, pari titolo, quindi, per maschi e femmine. La classe dei maiorali, composta da liveros maiorales e liveras maiorales,partecipava al governo del giudicato e ad un presunto senato. I maiorales si chiamavano fra di loro”frades meosè e ”sorres measè senza che questo indicasse necessariamente parentela.”

 

Se quindi, per rispetto storico-familiare e legislativo, prendiamo in considerazione“status”e trattamenti nobiliari della famiglia Valier secondo il diritto e le consuetudini vigenti sul territorio di Venezia nel periodo alto-medievale nel quali esso ebbe origine, quindi molto prima della formazione dello Stato precedente all’unità nazionale, non possiamo che affermare che anche gli odierni discendenti ex-foemina del ramo secondogenito, il quale, in assenza di eredi maschi si sarebbe estinta nella seconda metà del Secolo XX,  godano distinta qualità nobiliare. 

 

 

  §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

 

 

 

 

Il riconoscimento

della qualità nobiliare

oggi in Italia

 

  di Sergio de Mitri Valier

 

Prima di prendere in considerazione la nobiltà italiana è' opportuno sgombrare il campo da un possibile grosso equivoco:

oggi, nel nostro Paese, TUTTI i titoli , le qualità, i trattamenti nobiliari , italici o esteri hanno solo valore storico-morale, quindi meramente de courtesie;

coloro i quali volessero loro attribuire parziale, minimo o pieno valore legale sarebbero decisamente fuori strada,tuttavia "tutti i maggiori studiosi della    materia sia del passato che dei giorni nostri sono d’accordo nel dire che la nobiltà o i titoli nobiliari non si  prescrivono e quindi resta alle famiglie l’indiscusso (e in Italia privato) diritto di considerarsi oggetto di eredità immateriale dei loro  titoli nobiliari o più semplicemente della propria  dignità nobiliare.".

     

 Se al giorno d'oggi , ad  ogni costo , volessimo considerare la valenza giuridica della nobiltà italiana, redigere elenchi, criteri o linee guida elaborati sulla base di riconoscimenti legali, saremmo costretti a valutarla esclusivamente sulla base delle leggi nobiliari in vigore nei  vari stati, nel momento nel quale venne concessa oppure maturò e ne fu accettato lo status nobiliare della famiglia. 

  Questa affermazione si basa solidamente sul diritto internazionale secondo il quale non può essere annullata la valenza di uno  status nobiliare riconosciuto da un'autorità statuaria anche se successivamente ignorata, negata o proibita dai governanti di nuovo Stato o forma politica che  gli sia succeduto nell'esercizio del potere.

      

 Colui il quale considerasse valevoli esclusivamente i provvedimenti di natura nobiliare dello Stato post-unitario ( Regno d'Italia )  ritenendo nulli    quelli legalmente emanati da Stati preunitari od ancora precedenti , effettuerebbe solo un'indebita ingerenza, giuridicamente ultra vires, nonchè un maldestro approccio alla    materia nobiliare, egli non solo non terrebbe conto del millenario

jus gentium, ma ma ignorerebbe l'attuale diritto internazionale, mai abrogato.

     

L'adozione di criteri di diritto pubblico, in base alla settantennale irrilevanza da parte della Costituzione della Repubblica Italiana è incongruente, come lo     è altrettanto la pretesa di applicare acriticamente il diritto nobiliare del breve Regno d'Italia, il Libro d'Oro ed gli elenchi alle famiglie che un tempo rappresentavano il    ceto dominante degli Stati Italici.

Tale pratica, seppur attualmente considerata tra i membri di una privata associazione di superstiti famiglie di elitaria distinzione, è manifestamente    irragionevole.

     

La Repubblica Italiana con il totale disinteresse manifestato dalla sua Costituzione non ha ritenuto opportuno legiferare in merito, alla luce di ciò è del tutto evidente l'impossibilità di avvalersi dell'autorità dello Stato in materia nobiliare, rimane pertanto assodato la negazione di ogni possibile valenza ricognitiva statuale.

Inoltre, cosa  di rilevanza anche maggiore, le leggi nobiliari del trascorso Regno d'Italia sono state dichiarate non legittime dalla Corte Costituzionale italiana per mezzo della  sentenza n°101 /1967.

 

 Da decenni la Santa Sede e la Repubblica di San Marino hanno rinunciato a conferire titoli e riconoscere qualità nobiliari.  Alcuni Ordini Cavallereschi non hanno tuttavia mai rinunciato al fons honorum  che conferisce piena e validità a provvedimenti di grazia e / o di    giustizia anche ( ma non solo ) per i cittadini italiani:

Il Sovrano Ordine Militare di Malta è un Ordine Religioso Cavalleresco il quale conferisce e riconosce nobiltà attraverso le proprie classi storicamente    nobiliari , esso emette provvedimenti nobilitanti e ricognitivi di nobiltà.

L'Ordine, fons honorum, è sovrano ed è soggetto persona di diritto internazionale, intrattiene regolari rapporti diplomatici con la Santa    Sede ed è accreditato presso i Governi di oltre settanta nazioni.
    Il Gran Maestro gode della precedenza riservata ad un Cardinale diacono di Santa Romana Chiesa, nonché del titolo di Principe reale.

Egli è dunque Altezza Eminentissima e la sua posizione di Capo, Sovrano di Stato è riconosciuta internazionalmente.

 Il Santo Padre ha, quale suo rappresentante presso l'Ordine, un Cardinale con il titolo di “Cardinalis Patronus”.

     

Considerare il Sovrano Mililiare Ordine di Malta un semplice "ente storico un tempo statuale" è palesemente e    fortemente riduttivo, comunque inaccettabile dalla stragrande maggioranza degli studiosi.

E' interessante notare che l'Italia riconosce quale internazionale e sovrano l' Ordine di Malta, nel cui ordinamento giuridico i titoli nobiliari sono    ancora riconosciuti.  

     

Altrettanto riduttivo, comunque ritenuto inaccettabile è considerare gli Ordini Cavallereschi dinastici di Case reali ex regnanti, “enti storici un tempo    statuali ed oggi divenuti di natura privata che richiedono cosiddette “prove nobiliari”.

     

Anche in questo caso il Diritto internazionale è chiarissimo e non da adito ad interpretazioni :

Un Sovrano, che abbia abbandonato o gli sia stato imposto di lasciare il suolo patrio e non abbia espresso formalmente e nei fatti una rinuncia ad ogni pretesa al    trono , conserva intatte quelle prerogative a cui non sarebbe di ostacolo la mutata situazione istituzionale dello Stato e, mentre le altre prerogative rimangono sospese egli    conserva lo jus honorum in quanto diritto intangibile del Capo di una Casa Sovrana .Vedi i princìpi implicati nello stabilire la validità degli    Ordini di Cavalleria secondo l'autorevolissima

  Commissione Internazionale permanente per lo studio degli Ordini Cavallereschi (    I.C.O.C.)

2) Gli Ordini dinastici o di famiglia appartenenti Jure sanguinis     a una Casa Sovrana (cioè a quelle case regnanti o ex regnanti il cui rango sovrano venne riconosciuto internazionalmente all’epoca del congresso di Vienna o più    tardi) conservano intatta la loro validità storica cavalleresca e nobiliare, indipendentemente da ogni rivolgimento politico.

 È da ritenersi pertanto giuridicamente ultra vires     l’eventuale ingerenza dei nuovi Stati succeduti alle antiche Dinastie, sia sul piano legislativo che su quello amministrativo nei confronti degli Ordini dinastici.    Che questi non siano riconosciuti ufficialmente dai nuovi governanti, non inficia la loro validità tradizionale e il loro     status , ai fini araldici, cavallereschi e nobiliari.

 

( Dal contributo del Barone Prof. Alessandro Monti della Corte: Criteri per l’individuazione degli Ordini cavallereschi, in Rassegna «Il Consiglio di Stato», Atti del Convegno sugli Ordini    Cavallereschi, Benevento-Faicchio, 7-8-9 maggio 1971).

 

 Ovvero, secondo le consuetudini internazionali ed il cerimoniale della Santa Sede e delle superstiti monarchie, il rango di Casa Reale già regnante è    riservato solo a quelle famiglie che negli atti del Congresso di Vienna,  dal 1815 , vennero considerate sovrane. Senza orma di dubbio, tra di esse quella Borbone Due Sicilie.

L’accettazione di un cavaliere, previa la presentazione di prove d'ammissione, in una classe tradizionalmente nobiliare, da parte del Gran Maestro di un Ordine    cavalleresco dinastico, Capo di una Casa già regnante che non abbia rinunciato spontaneamente alla sovranità e non sia mai stata debellata,  quale, tra gli altri, il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio ( l'attuale Gran Maestro è S.A.R. l'Infante di Spagna Principe Don Carlos di Borbone delle Due Sicilie e Borbone Parma, Duca di Calabria), costituisce autentico provvedimento di Grazia magistrale ovvero indubbio riconoscimento della nobiltà della famiglia del cavaliere ammesso.   

    

 

La nobiltà civica di alcune famiglie di Cormòns ( Gorizia ), 1558.

 

di Sergio de Mitri Valier

   

Con provvedimento datato 8 novembre 1460 Giovanni di Lurngau, rettore della Principesca  Contea di Gorizia e Gradisca, istituì nel borgo di Cormòns un consiglio, nell’intento d sostituire e migliorare funzioni e prerogative dell’antico istituto delle comunità di villaggio e delle estemporanee riunioni tra nobili castellani e Vicinìa borghigiana.

 

I cittadini aventi requisiti di bona fama, ovvero maschi maggiorenni, non gravati da servitù o macchiati da infamia, furono elettori attivi e passivi di un consiglio ristretto di dodici uomini consiliarii e retori, eletti ogni anno. Essi si distinguevano per virtù ed autorevolezza , dovevano: haver tanta actorità de far, veder et decider quala avrà ha et haveria tutta la vicinanza. Col medesimo criterio veniva effettuata l’elezione dei Podestà ( con funzione di giudice ) e due o più amministratori dei beni della Chiesa  “Camerari”.

 

Il Consiglio dei XII deteneva nel suo ambito territoriale il potere in campo dispositivo, esecutivo e giudiziario ( relativamente ai reati minori ) ed aveva quale unico referente dell’autorità comitale il gastaldo, in seguito il giurisdicente del Conte. Con lo stesso criterio erano eletti il Podestà ( o Giudice ). Quest’organo raccoglieva anche le competenze che spettavano al placito della cristianità nell’amministrazione dei beni delle chiese, affidate a due o più Camerari che dovevano rendere conto al Consiglio del loro operato.

 

Prima di prendere in considerazione le caratteristiche peculiari dello storica Magistratura cormonese e la conseguente civica nobiltà delle famiglie i cui membri tradizionalmente ne fecero parte, occorre sgombrare il campo da un singolare modo, utilizzato da una associazione privata, seppur autorevole, di riconoscere uno storico “status” nobiliare.

 

La Consulta Araldica del Regno ebbe ( tra conflitti mondiali ed imprese coloniali ) poco tempo per espletare il proprio mandato e d’altra parte non si può far a meno di notare la superficialità e la parzialità delle scelte operate , nonché la scarsa chiarezza ed uniformità interpretativa in materia di famiglie appartenenti a patriziati , nobiltà civiche e decurionali. Intere regioni furono pressoché tralasciate, la provincia di Gorizia alla quale Cormòns appartiene divenne formalmente italiana solo nel 1921 e ciò comportò l’esclusione dal Libro d’Oro della Consulta e ritardi nell’attività ricognitiva , peraltro intralciata da un clima di sospetto filo imperiale, spesso fondato.

Predomina ancora una scuola di pensiero che insiste a mutuare i criteri ricognitivi dello “status” nobiliare dalle leggi antistoriche ed anticostituzionali del Regno d’Italia con il quale viene trattata la materia nobiliare , come se appena un’ottantina d’anni di regno unitario avessero la pretesa di dettar legge su secoli di diritto e diritti nobiliari.

Per correttezza, rispetto storico-familiare e legislativo, deve venir presa in considerazione la qualità nobiliare secondo il diritto e le consuetudini vigenti sul territorio nel periodo nel quali esso ebbe origine.

E’profondamente errato, dal punto di vista storico-giuridico, fare riferimento ai regolamenti della Consulta Araldica del regno sabaudo piuttosto che al diritto e alle consuetudini nobiliari storiche, e se questa può aver temporaneamente messo in sonno - ma non certo abrogato - i diritti e le consuetudini nobiliari previgenti che regolavano status originati in epoche ben più risalenti, ciò non vale, a maggior ragione, ora che anch'essa è finita nel dimenticatoio della storia e la relativa giurisprudenza nobiliare, annullata dalla Corte Costituzionale ( n°101, 26/06-08/07/1967 ) .

 

Partiamo da un punto fermo :

Il Podestà ed il Consiglio dei XII esercitavano pienamente il potere dispositivo, esecutivo e giudiziario ,in altre parole avevano prerogativa di autentico governo ( cfr. D. Degrassi “Cormòns nel Medioevo”).

 

  Andiamo oltre:

Storicamente, per essere considerata nobile, una comunità doveva vivere in città o borgo libero ( non soggetto né ad altra città, né a famiglie feudali ) e godere giurisdizione sul contado circostante. Un documento del 1470, sottoscritto la conte Leonardo Lurngau , dimostra in modo inconfutabile la totale autorità dei Dodici sui villaggi limitrofi ( Meriano, Medea, Chiopris, Povia ecc. ) e sulla nobiltà feudale laica e religiosa ( prelati, conti, baroni, cavalieri, capitani , vice domini, prefetti, giudici ecc.).

 

Talvolta, del tutto arbitrariamente, era indicata quale conditio sine qua non per considerare nobile il consiglio civico e conseguentemente le distinte famiglie che lo alimentavano, la cosiddetta separazione di ceto, la quale spesso fu riconosciuta o ignorata dalla legislazione regnicola in base sia ai singoli regolamenti statutari, sia a personalissimi criteri interpretativi, spesso influenzati dai campanilismi delle commissioni regionali della Consulta Araldica del Regno. Decine di città senza traccia di separazione di ceti nello statuto , in realtà, ebbero formale riconoscimento.

Con buona pace delle indicazioni della Regia Consulta , è tuttavia estremamente chiaro che qualora i singoli regolamenti e statuti non avessero riportato chiari limiti di separazione tra i primi e i successivi ceti o fossero del tutto privi di tale distinzione, ciò non avrebbe pregiudicato affatto la nobiltà delle famiglie interessate.

Infatti “serrate” di civiche magistrature, istituzione di elenchi ufficiali e obbligo d’iscrizione, ebbero solo una funzione restrittiva: quella di tutelare le casate di coloro che ottenuta, magari secoli prima, gradualmente lo status nobiliare, esercitando prerogative di potere all’interno di un consiglio cittadino, abbiano deciso di tutelarsi, limitando efficacemente l’entrata di ulteriori nuove famiglie .

Tuttavia potremmo semplicemente chiederci: nacque prima l’uovo o la gallina ? Nacque prima la genuina Nobiltà Civica, scaturente dall'esercizio della Magistratura, o la separazione che, “blindando” il ceto tutelasse le famiglie di più antica tradizione ?

La domanda è oziosa e la risposta è ovvia!

 

 Le famiglie che nei secoli esercitarono il governo del Borgo indubbiamente

 maturarono autentica nobiltà.

Tra esse quella, alla quale mi onoro di appartenere: de Mitri ( Dimitri o Mitri ) fu una delle più eminenti, numerose, antiche e longeve di Cormòns.

 

A Cormòns non risulta esistessero forme di separazione di ceto né elenchi familiari, rari i trattamenti o le qualifiche dei liberi cittadini. Ciò indica semplicemente che coloro che si son avvicendati nell’esercizio delle supreme cariche della Magistratura civica e l’eventuale autorità sovrana non ravvisarono la necessità di limitare nascita, sviluppo ma soprattutto aggregazione di ulteriori famiglie nobili all’accesso del governo borghigiano.

 

Secondo Bartolo di Sassoferrato “Tractutus de insigniis et armis,1358 (…)” è essenziale l’appartenenza ad un “ufficium”, in quanto allo stesso era legata la “dignitas”, che a sua volta portava alla “nobilitas” (…) .

 

M. Zorzi, afferma che prima della Serrata del Maggior Consiglio a Venezia “ la qualità di nobilis vir veniva attribuita (…) a chi portava un nome antico ed illustre, collegato alla storia del ducato e della città, ma anche a chi ricopriva un ufficio pubblico di rilievo”.

 

Gaetano Moroni Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni”, nel 1851 affermava: ”(…) si diviene nobile anche per l'esercizio delle onoranze pubbliche, del decurionato e cariche civili, colla graduazione relativa  (…) il titolo di Nobile si dà alle famiglie che detengono il potere della magistratura in maniera esclusiva da secoli, in ogni città e terra libera, a prescindere dallo statuto (...)".

 

 Se così non fosse, quale sarebbe la motivazione del fatto che decine di città, senza traccia nello statuto, di separazione dei ceti, siano state riconosciute dalla Consulta?